IL BONUS BEBE’: CORSI E RICORSI NEL ROMANZO DEI SERVIZI EDUCATIVI
Lo sguardo di una pedagogista risucchiata nel welfare familiare
di Sandra Benedetti
Sto accudendo C. di un anno appena, figlio di mia nipote, lavoratrice a tempo indeterminato sia lei che il compagno, lei con un lavoro strutturato su turni 7 gg su 7 e lui impiegato in una azienda fuori Bologna; C. è iscritto al nido privato frequentato anche dalla sorellina L. di quasi tre anni: in totale fanno 1.200 euro al mese poco più, poco meno…..anzi decisamente poco più, perché C. essendo nato “fuori tempo massimo” non è potuto accedere alle graduatorie annuali e quindi è entrato da “privato/privato”, come recita il regolamento della cooperativa che gestisce il nido di cui mia nipote è molto contenta.
Quel “privato/privato” sta a dire che la retta supera abbondantemente quella convenzionata.
C. che è stato inserito a marzo, si è ammalato, come spesso accade, e da oltre una settimana, dopo cioè che è stato accudito nei giorni più impegnativi dalla mamma, è scattata l’operazione “crossing” che consiste nel ricercare dentro il crocevia familiare, la disponibilità di un parente prossimo in grado di accudire C. evitando di farlo tornare al nido non completamente ristabilito. Un ulteriore supporto in termini di aiuto proveniente dal mercato, non potrebbe essere sopportato per l’economia della giovane coppia già vessata da tasse, mutuo e costo dei servizi.
Tra alchimie e contorsioni riusciamo ad incastrare tutte le presenze affinché C. possa guarire definitivamente e poter rientrare al nido; il welfare familiare ha dato prova di essere la risorsa prioritaria in un paese dove non è sufficiente avere i servizi ed accedervi, pagando tariffe consistenti, e si è rivelato ancora una volta l’unica fonte certa di risoluzione al problema.
La questione è che di questo welfare tra breve non se ne ravviserà più traccia ..a partire cioè dalle prossime generazioni che non potranno appoggiarsi a familiari neopensionati, in grado di provvedere in assoluta emergenza alla catena solidale che è necessario attivare in queste circostanze, poiché dovranno permanere al lavoro.
Mentre preparo la pappa a C. e lo tengo d’occhio nel suo gattonare tra una stanza e l’altra, ascolto radio 3 e mi accorgo che nella giornata di oggi (lunedi’ 16 maggio) nella trasmissione “Tutta la città ne parla” stanno telefonando a grappolo, una serie di persone da tutte Italia che desiderano esprimere la loro opinione sul “bonus bebè”.
Le telefonate si riferiscono in larga parte ad una serie di articoli comparsi sulla Repubblica del 16 maggio e più precisamente nella sezione “dossier” dove si tratta il tema dei congedi flessibili e dei bond per il welfare.
“Ci risiamo”- mi dico- “nulla di nuovo sotto il sole”… e l’annuncio della ministra della Salute Lorenzin, mamma anch’essa appena spianata – e certamente più incoraggiata nella sua condizione di neo-mamma da uno status sociale ed uno stipendio sicuramente generoso- di aumentare il bonus bebè associato ad altre misure a favore delle famiglie, prende posto non solo nei media, ma anche nelle testate dei giornali.
Alla radio le telefonate della gente raggiungono la redazione, e per chi come me è sensibile al tema, si rende conto che la questione è tutt’altro che piana, anzi molto controversa.
Il pretesto della misura che si intende adottare è il drastico calo della natalità che fa registrare, dal 2010 al 2015, un calo del 12% delle nascite e quindi la Lorenzin intenderebbe correre ai ripari utilizzando i risparmi che nel 2015 si sono verificati a causa di questa contrazione delle nascite investendo un ulteriore cifra pari a 300 milioni all’anno in più. Pertanto nella prossima legge di stabilità si dovrebbe, in virtù di questa maggiore disponibilità finanziaria, aumentare il contributo per le famiglie, sia quelle con ISEE fino a 25 mila euro all’anno che quelle che restano sotto i 7 mila.
E mentre la pappa si cuoce e C. pare godere di un momento di grazia in cui non avanza richieste e simula un semi-solitario ed innocente gioco al cucù, mi rammento dei tanti scambi realizzati quando lavoravo in regione e delle incursioni in paesi come la Francia, la Germania e la Svezia, sovente terreno di indagine per i coordinatori pedagogici che, con l’avvallo dei loro amministratori, erano stati, grazie anche la coordinamento regionale, invitati ad andare a cercare qualche idea innovativa al riguardo.
Per dovere di cronaca riprendo e confermo quanto anche “la Repubblica” segnala; in Germania il nido d’infanzia è assicurato per tutti i bambini e le famiglie percepiscono 150 euro al mese per ciascun figlio; i servizi sono spesso co-gestiti coinvolgendo ( e questo lo avevamo constatato direttamente a Berlino) anche i genitori che temporaneamente o stabilmente sono disoccupati, rendendoli partecipi della gestione del servizio (accesso alla cucina per preparare i pasti della giornata, accesso ai locali per riparare i materiali o fare bricolage ovviamente funzionali al sostegno della progettazione pedagogica del servizio).
In Francia una famiglia come quella di mia nipote, cioè con due figli, percepisce di default 130 euro mensili e si arriva a 300 quando i bambini sono tre. I nidi sono solo una delle tante tipologie di servizi di natura prevalentemente socio-sanitaria con progettazioni che marcano spesso la differenza tra un taglio a dominanza socio-assistenziale, ad uno più socio-educativo, ma con una diffusione del servizio pressoché generalizzato su tutto il paese, offendo in tal modo una scelta vasta non solo in ordine alla logistica del servizio, ma anche alla qualità dell’offerta in relazione al progetto pedagogico.
Anche nei paesi scandinavi la situazione di particolare attenzione dei governi locali non viene meno: addirittura alcuni paesi come la Svezia la leva dei congedi parentali è ben oliata e sono previsti infatti 480 giorni di congedo con lo stipendio al 70% e con l’aggiunta di 100 euro al mese per ogni figlio, sostegno che viene garantito per 16 anni.
Anche la Spagna, che pure registra un calo della natalità come noi, assicura servizi gratuiti per tutta la prima infanzia, anche se a mio avviso questa scelta comporta poi un livello di qualità più scadente dei servizi e non contribuisce come dovrebbe a responsabilizzare i cittadini utenti dei servizi alla co-partecipazione alle spese del welfare che per sua natura non dovrebbe assumere la connotazione del puro assistenzialismo.
In Italia la situazione è nota: il contributo assegnato per la prima volta ammonta ad 80 euro al mese per il primo figlio, aumenta a 160 per il secondo, ed viene riconosciuto ai bambini nati tra il 1 gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 appartenenti a famiglie il cui reddito ISEE va da 7mila a 25 mila euro annui.
La proposta della Lorenzin è di raddoppiare per il primo figlio (160 euro ) e aumentare ancora per il secondo (240 euro) e ciò per i nati fino al 31 dicembre 2020, sempre per le fasce di reddito comprese tra i 7mila e i 25mila euro. Mentre per le famiglie al di sotto dei 7mila euro per il primo figlio sono previsti 320 mila euro al mese e dal secondo figlio in sui 400mila al mese.
Alla radio le comunicazioni telefoniche si susseguono incalzanti: intervengono demografi, sindacalisti, cittadini comuni, lavoratrici, donne.
Molti di questi interventi segnalano che questo paese agisce nelle politiche di welfare secondo un principio bizzarro che è quello, usando la metafora di una casa da ristrutturare, di intervenire con qualche ritocco sul tetto evitando di fare manutenzione delle fondamenta, ossia dei capisaldi dell’intera impalcatura.
Il bonus bebè, in assenza di una politica seria sull’occupazione in particolare femminile ed in particolare nei sud del nostro paese, non determina nessun incentivo alla natalità perché è evidente che solo un progetto di vita con alcune garanzie/sicurezze basilari (lavoro, casa, congedi parentali) può costituire per le giovani coppie un orizzonte al quale guardare con serenità.
Inoltre il bonus bebè, per le caratteristiche con cui è impostato, costituirebbe un incentivo ancora una volta per le famiglie del sud di Italia in cui la disoccupazione femminile è maggiore e in cui ancora la dimensione delle famiglie risulta essere più ampia di quelle del nord. Ancora in virtù di una maggiore propensione a fare figli il bonus bebè intercetta con maggiore appeal anche le famiglie straniere tendenzialmente a monoreddito e con un numero di bambini al loro interno più elevato delle famiglie autoctone.
Attenzione dunque perchè sotto questo aspetto le politiche di welfare dovrebbero garantire una distribuzione equanime delle risorse, tenendo certamente in conto che chi più ha, più paghi, ma che non tutto può essere in termini di benefici, iscrivibile alla sola sfera economica. Altrimenti si rivelano strumenti di forte squilibrio sociale e il rischio è che incentivino atteggiamenti di resistenza all’evoluzione di processi di integrazione socio-culturale.
Sono le stesse valutazioni che più volte Chiara Saraceno ha compiuto al riguardo e che nuovamente riprende, da sociologa, anche in questa occasione e che non posso non condividere.
Lei afferma che le politiche di welfare sono la risultante di più azioni sincroniche e non scoordinate tra loro, come avviene quasi sempre, unite a lungimiranti politiche occupazionali e di conciliazione lavoro-famiglia che, come aveva individuato a suo tempo la legge Turco n. 53, incida anche sui tempi delle città.
Aggiunge che “ invece di aumentare il bonus bebè, o estenderne il periodo di accesso, sarebbe opportuno unificare queste misure, o al massimo ridurle a due, da fruire in alternativa (come succede in Germania): un trasferimento diretto, o un assegno per i figli, di importo crescente per il numero dei figli ed eventualmente decrescente in base al reddito famigliare, senza vincoli categoriali e , fino almeno alla maggiore età, una detrazione fiscale equivalente”. 1)
Mentre raccolgo la pappa nel piatto di C e mi accingo ad alimentarlo, penso anche se abbia senso trasferire finanziamenti al sud, nel tentativo utopico di aprire servizi, quando come sempre questi finanziamenti vanno evasi, e diventano occasione per ingrassare le casse di banche che li trattengono in quanto non esiste una cultura locale dei servizi anche per via di una cronica disoccupazione femminile e non solo.
Forse utilizzare per i trasferimenti monetari gli stessi parametri vigenti per le regioni adempienti, in uno scenario come quello del sud, (dove la gramsciana questione meridionale pare essere un problema affatto risolto, dato che la prospettiva ai giovani, come afferma anche Saviano, riesce ad offrirla solo la camorra) è un indice di ulteriore miopia e scarsa lungimiranza della politica italiana che, in materia di sviluppo dei servizi educativi, tenta da sempre di dare un colpo al cerchio ed un colpo alla botte.
Mi verrebbe voglia di saperne di più sulla proposta di Vecchiato che dalla Fondazione Zancan lancia l’idea del welfare generativo, ma C. segnala la sua presenza e il suo desiderio di affondare nella pappa tutti i suoi bisogni primari.
Lo accontento rimandando ad un prossimo appuntamento, su questa vetrina del sito, gli esiti delle mie letture ed i pruriti derivanti dalle mie curiosità… che non sono, come è intuibile, le sue.
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Da: La repubblica lunedì 16 maggio 2016 pag 23