Scusate se inizio con una affermazione quasi provocatoria: un virus sconfigge la globalizzazione. Ovvero, un virus che proprio grazie alla connessione globale dei territori sta oggi creando un serio problema alla “rete” economica e di interscambio che nel frattempo si è strutturata.
Un bene, un male? Se la risposta fosse una chiusura in se stessi (la frontiera nazionalista come difesa estrema) sarebbe, almeno per me, di certo un male perché lo scambio intergenerazionale che si è intrapreso in questi anni (Erasmus può insegnare) è un fattore di crescita e non di chiusura. Un bene (chiamiamolo così, o meglio un’opportunità) se dalla crisi potenziale del mercato può essere rimesso in discussione un modello di produzione e di interazione finanziaria a livello mondiale che ha segnato e segna un livello di sviluppo disallineato con i contesti socio economici dei territori.
Cosa c’entra questo con il problema del contesto educativo, scolastico, dell’apprendimento? C’entra, se riusciamo a cogliere i temi e le questioni di fondo che questo virus sta ponendo anche a livello di comunità educante.
Provo a citare solo alcuni dei problemi che mi sembra ci troviamo davanti.
Primo: se siamo in un momento di forte tensione e contingenza collettiva, dove gli schemi di convivenza, co-interazione, co-produzione sono messi in crisi anche solo temporanea, allora anche certi schemi devono al momento essere ri-letti e re-impostati. Per dirla con chiarezza: in un momento come questo, i diritti del sistema pubblico “devono soccombere” nei confronti della collettività che il sistema pubblico rappresenta e per la quale opera. Se, per esempio, bisognerà recuperare i giorni di chiusura scolastica, si dovranno recuperare anche sforando verso luglio, rimodellando il sistema in funzione di un obiettivo generale condiviso. D’altronde, tenere aperte comunque le scuole in un momento dichiarato di alta possibilità di contagio cosa può comportare se non la chiusura di un intero plesso qualora un solo studente/ studentessa o una sola educatrice/ maestra/ insegnante/ professoressa/ ata/ amministrativa (o al singolare maschile) fosse stata contagiata? Il virus, in sostanza, ci pone con forza di ripensare al rapporto tra diritti individuali e diritti collettivi, strada forse un po’ persa non dico da Rosseau in poi, ma almeno negli ultimi tempi.
Secondo: se così è, allora il problema diventa come la scuola può interagire con le famiglie e gli studenti per garantire il minor disagio possibile? Ovviamente non può essere solo la scuola come istituzione: qui mi pare si debba aprire un confronto ampio e generale con il governo e altre categorie sociali ( ma il sindacato non potrebbe nel suo essere anche intercategoriale promuovere questo, senza ricordare come al solito e come sempre i contratti “ormai purtroppo limitati” -in un’epoca globalizzata anche a livello di singolo territorio nazionale – di categoria) per gestire in modo sociale un problema che trascende la singola istituzione. Ben fanno, in questo senso, tutte le istituzioni scolastiche che si stanno adoprando per utilizzare la didattica a distanza per mantenere in essere un processo educativo e di apprendimento. D’altronde, forse dovremmo ricordarci che Nokia, la prima vera industria di comunicazione “moderna”, nacque in Finlandia proprio per permettere di raggiungere con le lezioni quelle comunità territoriali irraggiungibili per alcuni mesi all’anno a
causa della situazione climatica. E proprio qui il virus ci costringe a ripensare a tre questioni:
- e chi non ancora dispone, perché non li ha o perché non ne ha dimestichezza, questi mezzi? L’ignoranza digitale è ancora uno strumento che “divide” socialmente: come lo recuperiamo (posto che in questo momento ciò sia alquanto difficile)? Stupidissima idea: chiediamo un finanziamento ad hoc per la produzione in serie da parte di aziende italiane di p.c. da distribuire gratuitamente alle famiglie che non possiedono tale mezzo (non vorrei sbagliare, ma credo di copiare l’idea lanciata da Negroponte del M.I.T. circa vent’anni fa in U.S,A,) e poi apriamo le scuole ad un reale uso h. 24 per tutti i giovani che su questo tema abbiano da “recuperare” la distanza? (magari diamo lavoro a qualche disoccupato intellettuale in più)
- e nei territori in cui internet non arriva? Credo sia noto a tutti che in Italia la banda larga non è ancora presente in tutto il territorio; dunque, con la didattica a distanza vogliamo mantenere inalterate le differenze sociali già esistenti? Vogliamo continuare a promuovere la totale inamovibilità dell’ascensore sociale? Non potrebbe essere proprio la scuola che partendo da questa constatazione si fa promotrice della più forte e “sociale” richiesta di garantire a tutti almeno le stesse opportunità tecniche di partenza?
- la rete non potrà mai sopprimere il contatto e la vicinanza fisica che comunque rimangono una fonte insopprimibile di conoscenza. Come è stato detto (dalle Sardine: “corpi fisici in uno spazio”) la rete rimane un grande e ormai insopprimibile e pervasivo mezzo di interazione, ma il “cambiamento” continua ad esserci quando si scende in un luogo fisico. Pertanto, confido che la “distanza” che oggi il virus ci impone ci faccia recuperare a breve anche l’assoluta esigenza di una “vicinanza” in un luogo collettivo: e che la scuola sappia in questo senso ri-proporsi per tutte le generazioni come uno spazio ideale in questo senso.
Terzo: comunque la didattica a distanza rimane pur sempre una didattica “tradizionale”, cioè usiamo un mezzo diverso per continuare a riproporre uno schema di apprendimento sostanzialmente tradizionale. In questo senso, la voglia di superare il virus non sta innovando nulla, se non quanto dicevo prima. Un discorso lungo, non risolvibile in poche righe. Mi fermo a questa considerazione: il mondo della rete, la sua interconnessione, il multiskating permettono e ci introducono in un mondo in cui l’apprendimento (perché di processi di apprendimento e di formazione di conoscenze e competenze si può pur sempre parlare) travalica i saperi disciplinari, spingendo sempre più verso intrecci trasversali e interconnessi. In questa dimensione si possono innovare nuove forme di trasmissione (o meglio di cooperazione nella trasmissione), di conoscenze e di saperi che vadano oltre la misurazione della sola capacità di risoluzione del problema, ma interagiscono con la costruzione (come dice Morin) dell’imparare ad imparare.
Se sapremo operare bene ed in modo intelligente, allora forse – e fortunatamente – niente (o almeno qualcosa) sarà più come prima.
Aldo Garbarini