Partendo dalle origini…
Mi piace dedicare a questo appuntamento alcune considerazioni perché per certi aspetti, come persone che si dedicano all’infanzia, onoriamo tutte le donne che popolano i servizi 0-6 molte delle quali sono, realmente o virtualmente, madri, siano esse educatrici, coordinatrici o genitrici effettive.
La Grande Madre è una divinità femminile primordiale, presente in quasi tutte le mitologie, rappresentante la terra, la generatività, il femminile come mediatore tra l’umano e il divino. Seppure il culto della Grande Madre risale ad un periodo storico antichissimo (dal 30.000 al 1000 a.C.), la fase più fiorente si situa dal 7000 al 3000 a.C. (Neolitico) e la spiritualità della Grande Madre si rivolge verso l’aspetto femminile e materno di Dio.
Ma per azzardare una riflessione più prossima a noi, vorrei risalire alle origini della nascita di questa festività nel mondo occidentale, perché come al solito la genesi delle cose e degli eventi, in qualche modo li definisce: nell’antica Grecia gli Elleni dedicavano alla madre un giorno dell’anno e la festa coincideva con le celebrazioni in onore della dea Rea, la madre di tutti gli Dei, mentre gli antichi romani, invece, festeggiavano una settimana intera la divinità Cibele, simbolo della Natura e di tutte le madri.
Risalendo ai giorni nostri la festa della mamma fu festeggiata per la prima volta nel 1957 da don Otello Migliosi, un sacerdote del borgo di Tordibetto ad Assisi. Altro pioniere della Festa della Mamma è il senatore e sindaco di Bordighera Raul Zaccari, che istituì il primo festeggiamento nel 1956. Successivamente la festa è entrata a far parte del nostro calendario e, come in molti altri Paesi, viene celebrata la seconda domenica di maggio.
Questo, in sintesi, per la cronaca.
Voglio però tornare alla Grecia poiché è’ sicuramente certo che l’immagine che noi occidentali abbiamo introiettato della figura materna ha a che vedere con il mito greco, ripreso poi dalla cultura romana, e allora interessante è risalire alla genealogia prima di arrivare a Rea: secondo Esiodo in principio c’era il Caos e dal Caos nacque Gea la dea della terra, poi venne Tartaro, che era cupo perché rappresentava la profondità degli abissi, ed Eros che simboleggiava l’amore.
Gea la dea della terra diede alla luce DA SOLA un figlio, Urano, che era conosciuto anche come re del Cielo. E qui assistiamo ad uno dei tanti incesti della storia mitologica greca, poiché Gea generò Urano e poi si accoppiò con lui: nacquero, tra gli altri, i dodici Titani che furono una prima dinastia di dominatori, primogeniti ed antenati di tutti gli dei dell’Olimpo.
Se non che Urano, prima figura paterna che compare nella mitologia greca, odiava i figli procreati con Gea e perciò li seppelliva nel corpo di lei. Gea era addolorata per questo suo destino e chiese aiuto ai Titani, che erano anch’essi suoi figli, ma tutti avevano paura ad intervenire..solo uno Crono (noto tra i romani come Saturno) che prese tempo (da qui l’attribuzione della sua divinità) e si mise in attesa del padre. Appena Urano si apprestò a giacere nuovamente con Gea, Crono armato di falcetto gli tagliò i genitali e li scagliò nel mare. Fu così che Crono divenne potente nel pantheon delle divinità greche e quando si accoppò con la sorella Rea, madre di tutti gli dei, e dunque appartenente alla stirpe dei Titani, da questa unione nacquero Estia, Demetra, Era, Ade, Poseidone e Zeus. E come il padre Urano, anche il figlio Crono cercò di eliminare i suoi figli poiché essendo stato avvertito che il suo destino sarebbe stato quello di essere spodestato da un figlio, per evitare che ciò accadesse, inghiottiva appena nato ogni figlio messo a luce, indipendentemente dal fatto che fosse maschio o femmina.
Come la madre Gea, anche Rea affranta dal dolore si rivolse ai genitori, Gea e Urano, per avere aiuto e per punire Crono per aver castrato Urano e divorato i cinque figli. Costoro consigliarono Gea di andare a Creta e alla nascita del prossimo figlio consigliarono Rea di ingannare Crono avvolgendo una pietra in fasce fingendo il nuovo nato. Così fu e Crono nella fretta ingoiò la pietra pensando si trattasse del figlio. Quindi l’ultimo figlio, quello risparmiato, fu Zeus (Giove per i romani) che spodestò il padre e governò dei e mortali ed obbligò il padre a rigurgitare i suoi fratelli con i quali intraprese una battaglia contro il padre che terminò con la disfatta di Crono e dei Titani che vennero rinchiusi nelle caverne del Tartaro.
Cosi i tre fratelli Zeus, Poseidone ed Ade si spartirono l’universo: a Zeus toccò il cielo, a Poseidone il mare e a Ade il mondo sotterraneo e sebbene rimanesse sottinteso che Terra e Olimpo fossero territori comuni, alla fine Zeus estese il suo dominio ovunque.
Le tre sorelle Estia Demetra ed Era invece non avevano nessun diritto di proprietà, come indicava la natura patriarcale della religione greca.
Tutto questo per portare la nostra riflessione su Demetra che rappresenta nell’Olimpo greco l’archetipo materno.
L’archetipo materno, rappresentato appunto da Demetra, spinge ogni donna ad essere nutrice, generosa, e disinteressata, cercando la propria soddisfazione nel curare ed accudire gli altri. L’aspetto “nutrice” dell’archetipo di Demetra può trovare espressione professionale in attività sociali come l’educazione, l’insegnamento, la cura dei malati, dei deboli, in attività consultive, e in qualsiasi occupazione e qualsiasi rapporto in cui si può accompagnare ed aiutare gli altri e ciò diventa tratto costitutivo del ruolo.
E’ bene ricordare che l’archetipo agisce e non si limita alla maternità biologica, ma definisce un’attitudine.
E pur tuttavia sempre la mitologia greca non risparmia una seconda immagine della madre rappresentata da Medea che, per punire il marito, uccide i due figli nati da lei e da Giasone.
Sebbene con visioni diverse in epoche diverse le donne erano considerate e valorizzate in alcune culture (cretese, etrusca per es.) regine, sacerdotesse, artigiane, membre anziane del clan e la società era di carattere egualitario. Ciò che costituiva motivo di particolare valore era il rispetto verso la Madre Terra come simbolo della Grande Madre. Il potere della donna era inteso non come dominio, ma come capacità di illuminare e trasformare la coscienza umana. Più tardi nell’epoca medievale tutto ciò sarà simboleggiato nel vaso femminile: il calice del Sacro Graal. Un potere, quindi, non terreno ma spirituale che si estrinseca non solo nella conoscenza e nella saggezza, ma soprattutto nella verità, nell’amore, nella giustizia.
Queste qualità verranno in seguito attribuite dalla religione cattolica alla Vergine Maria così la dispensatrice della nascita e la Madre Terra si fusero in una unica icona: quella della Madonna. Per cui piano pianola spiritualità antica della Grande Madre gradualmente si attenuò fino a scomparire come risultato delle scontro tra culture diverse e del successivo affermarsi delle religioni patriarcali.
L’utilità di queste considerazioni paiono evidenti per comprendere quanto la cultura agisca e determini stereotipie e pregiudizi, che nella storia hanno portato e portano tutt’ora in evidenza luoghi comuni ed atteggiamenti così gravemente determinanti nel destino delle donne e delle madri anche di questo nostro tempo.
Ma nei nostri servizi oggi le tante madri che incontriamo non appartengono solo al mondo occidentale; quale percezione abbiamo dei loro archetipi, cioè delle immagini introiettate della figura materna nelle culture di appartenenza?
In Africa la Grande Madre viene chiamata Nana e Iside; in America la Dea dall’abito di serpente;presso i Navajos e gli Apache la Estsanatlehi era la Madre di tutti gli esseri viventi che all’alba del mondo, quando si unì al sole, partorì due gemelli che sconfissero i mostri che popolavano il suolo terreste. In Asia, in area mesopotamica (V millennio AC) e in area anatolica (II millennio AC), viene adorata come Ninhursag, Cibele, e Anahita, in Cina è chiamata Qan-Yin, in India Durga.
… per arrivare ai giorni nostri
Per venire ad oggi, un modo certamente più laico per celebrare la maternità potrebbe anche essere quello di dedicare ad essa la pubblicazione di un rapporto sulla condizione delle madri in Italia, come ha fatto Save the Children, alla vigilia della Festa della mamma, pubblicazione che fornisce, tra l’altro, un quadro sulle regioni dove è più facile essere mamme nel nostro Paese.
Scorrendo il materiale pubblicato si constata ancora una volta che nel nostro paese essere madre è una sfida agli equilibrismi più arditi: il carico di lavoro derivato dalla conciliazione dei tempi di vita, di lavoro e di cura appare ancora molto sbilanciato e l’arrivo dei figli aumenta notevolmente la fatica poiché oltre a determinare un cambio di vita di coppia, penalizza le donne che spesso vengono espulse dal mercato del lavoro.
Il rapporto non si limita a queste dichiarazioni ma prende in esame la dimensione del problema comparandolo alla situazione nelle diverse regioni; emerge che:
“le Regioni dove si riscontrano condizioni più favorevoli alla maternità vede ai primi posti solo Regioni del nord, mentre gli ultimi posti sono tutti riservati alle Regioni del sud. Uno squilibrio territoriale confermato anche nel dettaglio di ciascuna dimensione che compone l’indice relativo a cura, lavoro e servizi per l’infanzia. Anche osservando solo l’aspetto della cura familiare, infatti, l’Emilia Romagna si colloca al primo posto mentre all’ultimo troviamo la Calabria, e rispetto all’accesso delle donne al mondo del lavoro il Trentino Alto Adige è la regione più virtuosa, la Campania quella meno. Per quanto riguarda l’offerta di servizi pubblici per l’infanzia, la Valle d’Aosta si segnala al primo posto e la Basilicata all’ultimo.
Nel rapporto si rileva la pressione del lavoro di cura familiare riguarda in Italia circa 8 milioni di mamme tra i 25 e 64 anni che convivono con figli under 15 o under 25 ma ancora dipendenti economicamente da loro, ma si concentra maggiormente su quelle con almeno un figlio sotto i 5 anni (2,7 milioni di mamme) o tra i 6 e gli 11 anni (2 milioni).Il carico di cure familiari per le mamme si intreccia con un mercato del lavoro che in Italia ne taglia fuori metà tra i 25 e i 64 anni. L’accesso al lavoro si riduce ulteriormente se aumenta il numero dei figli: tra i 25 e i 49 anni il tasso di occupazione materna con 1 figlio è pari al 58,6%, ma si ferma a 54,2% se i figli sono 2 e non supera il 40,7% con 3 o più figli.
L’accesso al mercato del lavoro delle mamme dipende dalla possibilità di trovare un equilibrio soddisfacente tra la loro vita personale e quella lavorativa, e su questa sfida grava fortemente la diversa distribuzione del lavoro familiare tra uomini e donne: le italiane over 15 dedicano al lavoro familiare non retribuito circa 5 ore e 9 minuti al giorno, contro le 2 ore e 22 minuti degli uomini.
Ecco perché quasi la metà (42,7%) delle mamme che lavorano segnala difficoltà concrete nel conciliare l’impiego con le cure familiari e non raramente questo si traduce nella soluzione più estrema, cioè l’abbandono del lavoro che coinvolge il 30% delle madri con meno di 65 anni e in più della metà dei casi è dovuta alla nascita di un figlio.” Da: regioni.it – periodico telematico a carattere informativo plurisettimanale n. 2934 del 4 maggio 2016
Appare evidente come, tra archetipi e stereotipie, le madri abbiano attraversato nei secoli percorsi di autodefinizione e autoaffermazione tutt’altro che semplici e che le madri odierne siano da festeggiare più per i tripli salti carpiati che devono compiere quotidianamente, piuttosto che per uno sdolcinato luogo comune utile a commercializzare gadget e regalini di fittizio riconoscimento. In bilico dunque su un ben più complesso dilemma, quello della conciliazione dei propri impegni, le mamme cittadine della contemporaneità che incontriamo nei servizi educativi, ma anche quelle fuori, nei giardini pubblici o nei supermercati, si portano dentro tutte, un grande ed ingombrante interrogativo: come fare a riconoscere il valore e il diritto a dare e ricevere cura senza perdere il diritto ad essere anche altro?
Come essere dispensatrici di cura come Demetra, amare e sentirsi realizzate nella dimensione di madri senza che questa dimensione sovrasti il resto e annienti il desiderio di un progetto di vita che sia distinto da quello dei propri figli ?
Come essere capaci di generare oltre che corpi anche pensieri e atteggiamenti che liberino i figli dal rischio di essere “divorarti” affettivamente, perché è con la voracità affettiva che si tende compensare la frustrazione della separazione?
Molto spesso si lasciano agli psicoterapeuti o agli psicologi le risposte a queste domande, mentre andrebbero ricercate e pretese anche da politiche in grado di onorare le madri, non solo per la generatività di cui sono artefici insieme ai padri, ma per poter vivere la parte divina, creatrice appunto, che le onora nella sacralità di cui sono espressione.
Bibliografia.
J. Bolen Le dee dentro la donna una nuova psicologia femminile Ed. Astrolabio 1984, Roma
S. Veggetti Finzi Il romanzo della famiglia ed. Mondadori 1992, Milano
C. Pinkola Estes Donne che corrono coi lupi ed.Frassinelli, 1993
S. Nolen Hoeksema Donne che pensano troppo ed. Frassinelli, 2005
M. Aime Eccessi di culture ed Einaudi, 2004 Torino
I. Castoldi Meglio sole perchè è importante badare a se stesse ed Feltrinelli, 2001 Milano
C. Wolf Medea Ed. e/o 1996, Roma
C. De Gregorio Mi sa che fuori è primavera ed. Feltrinelli, 2015