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Quando la cultura del grande fratello genera fantasmi

21 apr 2019
Quando la cultura del grande fratello genera fantasmi

Quando la cultura del grande fratello genera fantasmi

Tornano come le nuvole che vanno e vengono, gli articoli sulla stampa e le richieste accorate di alcuni genitori che invocano l’installazione delle telecamere nei nidi d’infanzia; mi riferisco in particolare agli ultimi articoli comparsi rispettivamente sul Corriere della sera, cronaca di Bologna, dal titolo «Perché voglio le telecamere all’asilo» del 30 marzo 2016 e a quello comparso sulla Repubblica, cronaca nazionale, dal titolo Mamme in rivolta: “maestre violente all’asilo nido vogliamo le telecamere” del 29 marzo 2016.

E’ una triste constatazione anche se il tema del sicurezza al nido e più in generale nei servizi per la prima infanzia, cioè dei servizi che accolgono bambini piccolissimi affidati totalmente alle cure di persone qualificate, è da sempre un aspetto di alta vulnerabilità. Sia le leggi regionali che gli interventi, a partire da quelli correlati alla messa a norma degli ambienti e degli arredi, sono per questo oggetto di periodici aggiornamenti proprio per garantire il massimo dell’adeguatezza di principi di salubrità, sicurezza e garanzia delle condizioni di tutela dei bambini che negli spazi si muovono e sperimentano quotidianamente l’uso del proprio corpo in rapporto alle sollecitazioni che l’ambiente offre loro.

Un aspetto che non si può normare secondo parametri e coefficienti numerici (come per il rapporto spazio/bambino) è la prestazione del personale che si occupa dei bambini sia sotto il profilo della cura e dell’igiene che per quanto riguarda gli interventi di natura educativa, utili a favorire progressivamente le autonomie del bambino, sia sotto il profilo cognitivo, relazionale, fisico. Tuttavia qualsiasi servizio adeguatamente organizzato contempla obbligatoriamente, per esplicito dettato della norma dalla Regione Emilia-Romagna, la condizione inderogabile che:

  • Il personale sia dotato di titolo di studio adeguato e di una formazione permanente utile a mantenere attiva la consapevolezza del ruolo che gli compete e della responsabilità legata all’esercizio dell’attività svolta;
  • ogni educatore o collaboratore impiegato nel servizio sia obbligato a esplicitare lo stile educativo, condividendo con il gruppo di lavoro gli interventi e aderendo ad un progetto pedagogico elaborato e dichiarato dallo stesso personale del servizio che ne fa oggetto di dialogo anche con i genitori dei bambini;
  • ogni servizio sia dotato di un coordinatore pedagogico in grado di monitorare l’attività del personale, la sua adeguatezza in rapporto a quanto stabilito nel progetto pedagogico, esercitando tale monitoraggio, attraverso periodici incontri con il personale del servizio, oltre a contemplare visite costanti presso i servizi senza preavviso;
  • sia garantita la compresenza del personale sui turni di lavoro evitando che una educatrice rimanga da sola con bambini: questo è un aspetto importante a garanzia di un implicito controllo che il personale è in grado di esercitare in self;
  • il progetto pedagogico del servizio, e dunque le prestazioni del personale in esso operante, deve essere oggetto di valutazione per verificare lo scarto tra intenzioni dichiarate ed obiettivi educativi effettivamente raggiunti, ivi compreso la modalità e lo stile relazionale che il personale deve assumere con i bambini e con i genitori, e che deve essere caratterizzato da modalità non invasive, giudicanti né tanto meno prevaricanti.

 

Affermate queste premesse occorre precisare che uno dei requisiti fondamentali su cui si fonda il patto educativo tra il servizio e le famiglie che vi ricorrono per l’accompagnamento alla crescita dei propri figli, èla fiducia reciproca che ovviamente non è data in natura, ma va conquistata attraverso la constatazione che il luogo in cui i bambini vengono affidati, corrisponde davvero a quanto viene dichiarato dall’ente gestore (Comune o altro soggetto privato a cui è stato concessa la gestione del servizio in convenzione o in appalto), ivi compreso la garanzia che le condizioni succitate siano effettivamente possedute in toto.

Va ricordato che la fiducia è soprattutto un sentimento che ha a che fare con la parte istintiva di ciascuno di noi, mutuata dal pensiero e soprattutto nutrita dal progredire della relazione: è sperimentando la relazione e facendola evolvere che la fiducia può essere confermata o smentita.

La fiducia richiede infatti un affidamento ed un atto di fede che implica un’apertura verso l’imprevisto che non sempre può essere contemplato a priori dalla nostra mente o dai nostri sensi; quindi la fiducia come, ci suggerisce Salvatore Natoli, “va considerata come un atteggiamento mentale, un legame costituente, come l’etica, in cui il termine etica (ethos –  ἦθος = luogo consueto) indica non solo un dovere o una costrizione, ma piuttosto una consuetudine. Questo legame ordinario in cui nasce la fiducia è sia costituente – (significa che la fiducia si rinnova e si deve rinnovare di volta, in volta) che costitutivo ossia precede la decisione dei soggetti, ad esempio nasciamo già in condizione di fiducia”.¹) Lui aggiunge una considerazione centrale per quanto riguarda anche lo spirito di questa riflessione che vorrei compiere, ossia che “ senza la fiducia non ci sarebbe comunità”.

E questo è il punto di fondo: non ci si può avvicinare ai servizi educativi avendo un approccio basato unicamente sulla logica del controllo del presunto benessere, magari utilizzando una webcam, cioè un occhio tecnologico che scruta a distanza l’incolumità dei propri figli, attraverso una modalità che è fortemente pregiudicante la fiducia verso il personale che vi opera al proprio interno.

In questa direzione è compromesso il dialogo e si alimentata la logica del sospetto secondo la quale chiunque si occupi di cura, dall’educatrice che accoglie il bimbo al nido, piuttosto che della badante che veglia l’anziano in casa, sia inaffidabile e dunque potenzialmente da controllare, escludendo in tal modo il dialogo insito nella reciprocità. E allora per un insano approccio si potrebbe dire che le stesse riserve potrebbero estendersi ai genitori stessi in quanto lavoratori; per esempio l’infermiera che assiste l’ammalato in ospedale può essere una potenziale omicida? E che dire delle madri o dei padri che in un gesto disperato e forse non intenzionale, uccidono i propri figli? Le citazioni non sono casuali, ma si riferiscono ad analoghi casi di cronaca rispetto ai quali non credo si possano imputare gli stessi comportamenti all’universo dei genitori, piuttosto che a quello degli infermieri. E nessuno ha fin’ora avanzato la proposta di introdurre nelle case le webcam, nonostante le statistiche ci confermino che è dentro le pareti domestiche che si consumano i fatti più incresciosi di violenza sulle donne e sui bambini.

Certamente dinnanzi a casi di violenza sull’infanzia in contesti di cura occorre non transigere: intanto è necessario valutare se tutti gli standard previsti dalla norma sono garantiti (rapporto numerico adulti/bambini, presenza dei requisiti correlati al titolo di studio e alla formazione in servizio, presenza del coordinatore pedagogico, tempi di apertura adeguati, flessibilità organizzativa monitorata) e se in virtù di eventuali tagli finanziari intervenuti, siano venute meno quelle garanzie basilari che consentono di poter operare con margini di adeguata qualità. A questo proposito appare centrale il lavoro promosso dalla Regione Emilia-Romagna e condotto su un campione considerevole di servizi (sia nidi d’infanzia pubblici e privati convenzionati che sezioni primavera, oltre che ad un numero più ridotto di scuole dell’infanzia) mirato alla valutazione della qualità dell’offerta educativa a partire dall’adesione dichiarata dei servizi ad un progetto che, pur articolandosi secondo caratteristiche proprie di ciascun servizio, non trascura la condivisione di principi universali condivisi dai servizi appartenenti al sistema pubblico/privato della regione, come per es. le modalità relazionali della cura educativa, da realizzarsi avendo presente “un’idea di bambino e di famiglia contemporaneo”, con bisogni contingenti e specifici e non edulcorati da un approccio eccessivamente retorico dal punto di vista pedagogico e non solo.

Il punto di snodo di questo lavoro, che è di natura processuale e ricorsivo, e quindi orientato a non dare mai per scontata la qualità dichiarata, ma a ridefinirla costantemente lungo il tragitto osservativo e documentativo, mira proprio ad un interlocuzione attiva con il personale che è indotto ad autovalutarsi, avendo come riferimento un’ ipotesi di progettazione condivisa a livello di sistema. Ma la sola autovalutazione non è sufficiente a garantire l’attendibilità di quanto dichiarato; il passaggio contemplato nelle cosidette linee guida regionali, utili per la regolazione e il monitoraggio della qualità del sistema integrato di servizi, consiste proprio nell’avvalersi di un “occhio” esterno che non è certamente una webcam, ma un coordinatore pedagogico che non appartiene a quel servizio, ma che ha condiviso l’impianto progettuale e che interviene da esterno, per valutare la coerenza di quanto viene praticato in quel luogo dichiarato educativo, portando annotazioni e contributi da comparare con gli esiti dell’autovalutazione e che devono diventare materia di miglioramento, oltre che spunti per una più approfondita elaborazione coinvolgendo tutti i soggetti: dagli amministratori, ai dirigenti, al personale fino ai genitori che utilizzano il servizio.

Infine esiste un motivo prioritario per bandire le webcam ed è soprattutto di natura pedagogica: che messaggio trasmettono gli adulti ai bambini utilizzando l’occhio che li scruta di nascosto, adducendo che l’obiettivo è per il loro bene? Che immagine svalutante viene accordata alle educatrici che si occupano di loro e quanto questa svalutazione può alterare e compromettere il clima di benessere che è indispensabile per coltivare rapporti co-evolutivi? Quale atmosfera possiamo garantire ai bambini, ma soprattutto al personale se non accordiamo loro la fiducia che può favorire le condizioni ideali per assumersi la responsabilità del proprio gesto quotidiano che deve essere prima di tutto un gesto intenzionale, meditato e pur tuttavia spontaneo? Il processo di autoformazione può avvenire solo se attraverso l’educazione si riesce a favorire, nell’altro ed in sé stessi, lo sviluppo di quelle disposizioni in grado di facilitare tale processo.

Al contrario la webcam scruta, indaga, penetra negli interstizi del nido o della scuola, carpisce dettagli e particolari snaturandoli dal contesto in cui essi si manifestano e soprattutto favorisce comportamenti non spontanei, indotti quindi ad alterare e fortemente compromettere la natura delle relazioni che, come nel Grande Fratello, assumono la dimensione della finzione scenica, sicché la realtà è dominata dal fantasma del sospetto, del ricatto e del pregiudizio che non esita a minacciare in forma subdola secondo il principio del “io so che tu sai che io so”! E’ questo il messaggio che come adulti vogliamo trasmettere ai nostri bambini? E quand’anche avessimo protetto tutti gli ambiti in cui i bambini vivono, siamo certi che queste “riserve” non siano generatrici di nuovi scenari di violenza? Quella indotta appunto dalla diffidenza verso l’altro? Su questo interrogativo inviterei tutti a riflettere.

Sandra Benedetti – pedagogista

1. Salvatore Natoli – Fiducia – Lezione magistrale – 20 settembre ’09 – Carpi – ore 17.30
Rapporto Nazionale sulla Povertà Minorile
Insieme, unici e diversi – Convegno

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